Patrimonio Comune

La delibera “Patrimonio comune” per la valorizzazione sociale del patrimonio pubblico e privato, non è una semplice riforma del regolamento per le assegnazioni dei beni comunali, ma l’attuazione della previsione costituzionale della funzione sociale della proprietà prevista dall’art.42 e una proposta di valorizzazione di due risorse di cui il comune può disporre, il patrimonio e la cittadinanza attiva, per rispondere a diritti e bisogni fondamentali.

Di un nuovo regolamento c’è certamente bisogno dato che le delibere 5625/83 e 26/95 sono datate. Sappiamo che vi è una proposta della Giunta che potrà essere utilmente migliorata se confrontata con le procedure proposte dalla delibera di iniziativa popolare.

La proposta Patrimonio comune ha il suo cuore altrove. E’ un nuovo approccio al governo della città e alla gestione dei beni comuni. E’ un’ipotesi di politica economica controcorrente rispetto alla vulgata neoliberale delle privatizzazioni. Si tratta di opporsi al teorema del cravattaro che dice: “Hai un debito, se non lo puoi pagare, vendimi i tuoi beni”. Non mettiamo in discussione qui, anche se lo si potrebbe fare con ragione, la necessità di pagare il debito, ma il fatto che lo si debba pagare vendendo il patrimonio e tagliando i servizi. Al contrario sosteniamo che il patrimonio è una risorsa da utilizzare per ampliare i servizi.

Il primo punto della delibera è quindi il no alla vendita, e non lo diciamo per motivi ideologici, ma per tre motivi che ci sembrano fondati: il primo è di ordine economico: non è vantaggioso vendere con l’acqua alla gola e il mercato in ribasso. Il secondo è di legittimità, il patrimonio immobiliare non è di questa o quella giunta, di questo o quel consiglio comunale, ma di tutti i cittadini e le cittadine e dei loro figli e nipoti. Nei condomini non si possono mettere in vendita le parti comuni senza che vi sia l’unanimità dei condomini. Il terzo motivo è che questa risorsa sarebbe meglio impiegata per fronteggiare invece il deficit di servizi che vi è nella nostra città.

Parliamo di valorizzazione sociale invece che di valorizzazione economica. C’è un enorme bisogno di case per le fasce più svantaggiate della popolazione, ad esempio per attuare la delibera regionale sull’emergenza abitativa e per dare risposte alle domande del bando per la casa popolare. Come diceva un sindaco democristiano di Firenze, La Pira, “mettere fine alla vergogna di gente senza casa e case senza gente”.  C’è l’opportunità di dismettere beni in locazione con consistenti risparmi, pensiamo ai tanti uffici amministrativi in affitto o ai residence per l’emergenza abitativa. C’è bisogno di spazi per attivare nuove esperienze lavorative ed anche per permettere ai negozi di prossimità di resistere.

Ma si tratta anche e soprattutto di utilizzare il patrimonio come leva per attivare risorse sociali esistenti ed esuberanti nella città. Dalle cooperative di autorecupero ai consorzi di coworking, dai centri sociali alle associazioni culturali, dai coordinamenti, ai gruppi informali ai comitati che in ogni angolo della città si occupano del bene comune vi è una straordinaria ricchezza di cittadinanza attiva che chiede di potersi occupare del bene pubblico e che può essere attivata per la cura, la rigenerazione dei beni e per garantirne il loro uso sociale. La partecipazione popolare è infatti l’unico antidoto reale a Mafia Capitale. La città la si governa con la gente o non la si governa, ed allora prendono piede i fatti a cui abbiamo assistito.

Il secondo punto prevede quindi il censimento e una procedura partecipata di individuazione dell’utilizzo dei beni attivata dalla amministrazione comunale, dai municipi, o, dal basso, da soggetti collettivi di cittadinanza tramite bandi, concorsi di idee o altri strumenti e, in caso di mancato utilizzo diretto da parte dell’amministrazione, la assegnazione con bando pubblico o con convenzione a soggetti di cittadinanza attiva che ne garantiscano la destinazione e la fornitura di servizi.

La procedura riguarda anche i beni abbandonati di altri enti pubblici, e dei proprietari privati assenteisti, nei confronti dei quali, come hanno già fatto altri comuni, poter procedere con gli strumenti costituzionali a disposizione perché ne venga garantito la funzione sociale.

Ci rendiamo ben conto che ci sono problemi di bilancio ed è per questo che proponiamo  di coprire i costi dell’operazione mediante la istituzione anche a Roma – limitatamente ai soli grandi patrimoni – dell’imposta di scopo prevista dall’art. 1, comma 149, della legge 296/2006, come hanno già fatto una ventina di altri comuni in Italia. Una imposta che secondo calcoli approssimativi potrebbe dare, se limitata ai soli patrimoni detenuti dal 10% più ricco che controlla il 37% dei beni immobili della città un gettito tra i 300 e i 500 milioni.

Insieme con la altre delibere si tratta quindi di una sfida per un’altra politica, siamo convinti che l’attuazione della delibera darà più benessere, lavoro, servizi della politica tradizionale. ci auguriamo che il consiglio comunale la raccolga.

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